Sport, allenamento e disciplina

Sport, allenamento e disciplina

Sport, allenamento e disciplina

In questo articolo, parlerò di alcuni aspetti dell’allenamento, da quello prettamente fisiologico, a quello un po’ più filosofico, per arrivare infine al concetto di disciplina.

Cosa significa allenarsi?

L’allenamento, dal punto di vista fisiologico non è altro che uno stress, che agisce su più fronti in funzione della sua entità. Lo stress agisce sull’omeostasi, turbandone gli equilibri in essere, cosicché, al fine di ripristinare la stessa, l’organismo correrà ai ripari, cercando, non solo di riparare, ma di sovra-costruire al fine di non subire lo stesso danno, nel qual caso, si ripresenti lo stesso evento che ne ha causato il precedente disequilibrio. Tutto qui, niente alchimie, niente formule segrete. Se ho poco fiato, e provo a forzare un pochino, induco una sorta di ipossia alle cellule che compongono le fibre muscolari, di conseguenza, dopo adeguato riposo, l’organismo escogiterà delle soluzioni utili affinché non si ripresenti lo stesso livello d’ipossia nel qual caso riprovassi a correre come la volta precedente, come per esempio incrementare i trasportatori d’ossigeno, ottimizzare il sistema bronco respiratorio, incrementare il numero dei capillari e la loro capacità di scambio dei gas, e molto altro. Lo stesso principio vale anche quando applico degli stress “muscolari” e non aerobici, dove l’adeguamento sarà più spostato verso la costruzione di fibra muscolare più forte e resistente.

Questo semplice concetto, lo dovremmo tenere bene a mente, specie nelle situazioni in cui:

  1. Non siamo degli esperti e decidiamo di intraprendere un percorso di attività motoria per raggiungere un “x” obiettivo, scegliendo la disciplina in essere, in funzione di ciò che ci piace, dei consigli di amici o di entrare a far parte di un gruppo di amici che corrono, pedalano, nuotano, giocano a calcetto….
  2. Non abbiamo l’esperienza per mettere in gioco un adeguato stimolo allenante. A riguardo di solito, si creano spontaneamente due correnti di pensiero.
    • Lo sportivo agguerrito che ce la mette tutta pur di fare sempre di più. In questo caso solitamente si commettono due errori:
      • Colui che esagera con il volume, ignaro che è la qualità di quello che fa che conta. È colui che si reca in palestra 5-7 volte la settimana convinto che il suo corpo cambi in funzione di quante più sedute di allenamento esegue, senza sapere o preoccuparsi di come le esegue e se con l’intensità adeguata a dare stimoli.
      • Colui che esagera sempre con l’intensità. Ovvero chi si massacra ad ogni allenamento, senza darsi la possibilità di recuperare.
    • Il sedentario che vuole fare sport ma senza “sforzare”; gli farà senz’altro bene, ma si rischia di non ottenere dei cambiamenti utili a fargli raggiungere l’obiettivo. Se poi ci si mettono le lobby del marketing che promettono risultati ad impegno nullo, ecco che la frittata mediatica è fatta. Si crea un mostro disinformativo, dove chiunque, pensa di poter raggiungere l’obiettivo sperato applicando a sua discrezione o piacere il carico o il metodo allenante.
  3. Applichiamo dei carichi di allenamento in funzione di quanto sta facendo il gruppo di amici con i quali sto condividendo l’attività sportiva.

 

Un po’ di filosofia

Tralasciando gli aspetti fisiologici che portano il nostro organismo a dei cambiamenti, vediamo di inoltrarci in un ambiente allenante visto sotto altri aspetti. Ecco quindi qualche piccolo esempio, che non vuole fungere da giudice, ma da spunto sul quale riflettere.

  • Vado in palestra, piscina, a correre, a camminare, solo se viene anche la mia amica/o. Potremmo leggere la cosa sotto vari punti di vista, ma forse, il più lampante è: “non sono motivato, cerco sicuramente compagnia per incentivare la mia motivazione, ma in fin dei conti, se il mio amico dice di no, allora il mio fallimento è demerito suo…”, mi accollo così la metà della responsabilità, o scarico a terzi la mia demotivazione a non fare e a non prendermi delle responsabilità. Quante volte mi sento dire: volevo andare a camminare in montagna ma non è venuto nessuno e allora sono rimasto a casa…… ho chiesto alla mia amica se viene a fare il corso di sci/palestra/walking/altro.., ma ha detto che non può, quindi non ci vado nemmeno io…. ma che tristezza, la gente non ha voglia di fare nulla!…..detto questo, la domanda è: qual è la motivazione che ci induce o meno a praticare attività fisica? Lo facciamo veramente perché abbiamo ben chiaro un obiettivo da raggiungere? All’università ci iscriviamo solo se con noi ci viene l’amica/o?
  • Esco solo se sono in gruppo. Tipico atteggiamento dei praticanti amatoriali di sport d’endurance, come la corsa, il trail, il ciclismo nelle sue varie forme. Ma come, se hai ben chiari i concetti espressi all’inizio, ed hai ben chiari gli obiettivi che vuoi raggiungere, perché, per uscire e “fare”, hai bisogno necessariamente di un gruppo? Vi riporto qualche aneddoto:
    • Caio, vuole migliorare le sue performance ciclistiche, si reca in laboratorio a fare dei test e a farsi prescrivere un piano di allenamento adeguato alla sua situazione. Dopo aver chiarito gli obiettivi da raggiungere, i punti deboli sui quali lavorare, e su come allenarsi in merito, Caio chiude dicendo che nel dover eseguire quegli allenamenti resterebbe da solo perché è ben difficile eseguire delle ripetute in salita mentre si è in gruppo. Sapete quanti di queste situazioni capitano? Ho perso il conto a riguardo. Quindi, Caio per qual motivo si allena?
    • In questi giorni, di libera uscita dopo la quarantena indotta dal virus Covid-19, dove gli amatori vengono lasciati liberi di allenarsi purché da soli o ben distanziati tra di loro, si vedono scene raccapriccianti, di sciami di ciclisti raggruppati, incollati tra di loro come francobolli. Domanda: ma se devi forzare il ritmo perché fa parte del tuo piano di allenamento, perché non lo fai da solo come fanno i professionisti?
    • Gaia sta percorrendo una strada di campagna con la sua bicicletta. Nel procedere a velocità sostenuta, sorpassa Amedeo, che procedeva a velocità inferiore, il quale, appena si rende conto d’essere superato, la insegue appiccicandosi alla sua ruota posteriore. Domanda: ma fino a qualche attimo prima, Amedeo, che stava facendo? Che allenamento stava eseguendo, che d’improvviso ha deciso di correre veloce quanto chi l’ha superato? Mi spiegate questa necessità di appiccarvi alla ruota di chi vi sorpassa? Se volevate andare a velocità sostenuta, perché non lo avete fatto sin da prima, quando eravate soli? Sapete quante di queste ridicole scene si vedono per le strade? Ho perso il conto….
    • Oggi con il mio gruppo abbiamo pedalato per 160km. Domanda: ma te che sei stato sempre in coda o nel mezzo del gruppo, hai ben chiari quali stimoli allenanti nei termini di forza, resistenza, percentile di soglia, rapidità, hai dato al tuo organismo? Perché se valuti cosa hai fatto solo descrivendo la quantità, allora forse, mi chiedo perché utilizzi un cardiofrequenzimetro o magari un misuratore di potenza a riguardo….perchè tutti lo usano o perché sai interpretare ciò che stai facendo? Ma quando esci con il gruppo e progettate dove andare, lo fate in funzione di quale scopo: allenare la forza, la resistenza, il ritmo, la soglia, il….o in funzione del percorso che finora non avete ancora fatto?
  • La condivisione social. “Grazie ad una fantascientifica macchina del tempo torniamo indietro di qualche decennio, nei primi anni Ottanta. Siamo in vacanza in qualche località balneare per goderci del meritato relax con la famiglia. Ci svegliamo di buon mattino per effettuare la consueta e salutevole seduta di running sulla battigia, finita la quale rientriamo in famiglia e proseguiamo il resto della giornata, carichi d’energia, con la sensazione di sentirci in buona forma e soddisfatti di quanto appena fatto. Con la stessa macchina del tempo ritorniamo ai giorni d’oggi, sempre in vacanza, ci svegliamo di buon mattino, ci rechiamo sulla stessa spiaggia per effettuare la stessa seduta di running, finita la quale rientriamo in famiglia. Ma a differenza di vent’anni fa, prima ancora della doccia, ci preoccupiamo di fare una cosa molto, molto importante: condividere sui social la seduta fatta, i km percorsi, l’eventuale dislivello superato, la velocità media, insomma, la “misurazione” di quanto eroicamente eseguito, in attesa di metaforici applausi rappresentati dai like Se il ruolo dei social può far sì che sempre più persone pratichino attività motoria, ben venga, ma viceversa riflettiamo su questa consuetudine e su quale ruolo stia essa assumendo, specie in quei contesti di “attività di massa”, come corsa, ciclismo, trail, mountain bike, triathlon? Perché abbiamo la necessità di comunicare che “abbiamo fatto”, che il gruppo al quale apparteniamo “ha fatto”, che siamo, che apparteniamo? Quale applauso ci aspettiamo da tutto questo? A tal riguardo vi racconto questo aneddoto: le mie esperienze nel mondo della preparazione atletica, mi hanno regalato la fortuna di conoscere una grande persona, che è stato un grande mentore per me e porto sempre impresso nella mia memoria un suo messaggio. Un giorno mi disse: “conosco atleti di varie discipline sportive legate perlopiù alle arti marziali, maestri e campioni nel loro settore, perfettamente sconosciuti al mondo mediatico, che vivono la loro eccellente realtà quasi nell’anonimato più totale. Atleti capaci di sopportare non solo sacrificio, fatica e disagio ma bensì dolore, capaci di reggere fisicamente e mentalmente situazioni che getterebbero nello sconforto più totale la stragrande maggioranza di tutti coloro che ostentano sui social le loro virtuali medaglie per onorare l’allenamento o la prestazione atletica eseguita…conosco inoltre persone, appartenenti alle forze speciali, che hanno fatto della preparazione atletica un credo di vita, irraggiungibile anche solo mentalmente per la stragrande maggioranza di coloro che si dichiarano atleti. Tutte queste persone sono talmente sicure del loro credo che non hanno minimamente bisogno di spazi mediatici per comunicare che ci sono o che cosa fanno.” Tratto dal mio libro “siamo ciò che vogliamo essere”. Fa parte della psicologia dei gruppi, spiegato nel libro “Trappole Mentali“. Se faccio quello che tutti i componenti del mio gruppo fanno, divengo come loro, mi sgancio dallo status di sfigato, faccio anche io parte della tribù che a sua volta poi sfiderà gli altri gruppi per dimostrare chi ce l’ha più lungo, chi ha la divisa più figa, la bicicletta più costosa o leggera, le scarpe migliori, ma soprattutto a chi fa più dislivello o km nel mese, argomentazioni iper esaltate dalle piattaforme di condivisione dati e dai social, nelle quali, come pecore ci siamo finiti dentro. Ma pensate che ai professionisti, che tanto emulate, gliene freghi qualcosa di questi aspetti? Allora, visto che spendete fior di quattrini per avere la bicicletta e l’abbigliamento come i professionisti, perché non vi comportate come tali anche nel vostro modo di allenarvi?

 

Disciplina

Chiudo con il concetto di DISCIPLINA. Disciplina non è rigore o punizione ma è stile di vita e rispetto per sé stessi. la disciplina nella vita o nello sport, è paragonabile al concetto di nutrizione. Mangio per nutrirmi o mangio per saziarmi sono due aspetti che talvolta coincidono, talvolta evadono tra loro di anni luce. Quando ingoiare cibo equivale a nutrirsi? Quando questi 2 aspetti coincidono? Questo avviene quando il mangiare bene diviene volersi bene, stare bene e migliorare le proprie performance; non rigore, ma piacere. Ecco quindi che diviene disciplina. Nel versante opposto troviamo invece: non mangio perché altrimenti ingrasso, che tradurrei in “non mangio perché non voglio essere”, o peggio, non mangio perché mi faccio schifo ed è quindi colpa del cibo (pasta, riso o altro) se non mi sono mai voluto bene al punto tale da perdere efficienza, salute, e abbondare di kg che non piacciono.

La disciplina spesso viene interpretata come l’antitesi al “faccio ciò che mi pare”, quando invece disciplina è coerenza, è ascolto di sé stessi, è astuzia, saggezza, è capacità d’interpretare i propri errori per potersi allenare al meglio. Disciplina è saper distinguere la differenza tra ciò che mi piace ed appaga mentalmente da ciò che invece è per me allenante, anche se non gratificante; la conoscenza di questi due aspetti mi deve servire a capire quand’è il momento di allenarmi da solo per crescere ed ascoltarmi a quando invece ho bisogno di condividere emozioni, a prescindere se questo porterà un adeguato carico allenante o meno. Disciplina è volersi bene, nella consapevolezza che il massacro ad ogni costo ha sempre un prezzo finale da pagare, anche se lo pagheremo gongolandoci sugli allori di un podio. Disciplina è smetterla di compiangersi i risultati non ottenuti, gli allenamenti non fatti, la voglia che non si ha di fare, disciplina è crescere, smettendola di delegare a terzi le proprie responsabilità, assumendosi le proprie, nelle conquiste come nei fallimenti. Disciplina non è rigore militare o deprivazione, disciplina non è costrizione, disciplina è amore verso la parte del sé più profonda, quella non legata alle subdole superficialità dell’estetismo, delle prestazioni, dell’abbigliamento…Disciplina è accettare che dal podio della tua fierezza prima o poi ci dovrai scendere, anche se sei arrivato primo alle olimpiadi, e se nel tuo essere atleta, non ti sei disciplinato, ahimè cosa resterà degli allori conquistati? Disciplina è accettarsi: Accettare ed accettarsi, significa assumersi l’onere delle proprie scelte, con la consapevolezza che il successo o l’insuccesso fanno parte del gioco della vita e dello sport; accettare significa smetterla di demandare le responsabilità dei fallimenti e delle cose difficili da affrontare, così da poter metabolizzare che il non aver voglia di seguire un piano dietetico o un piano di allenamento che andrà a migliorare i nostri punti deboli, è solo un problema che riguarda le nostre scelte e non la professionalità del dietista o del trainer, figure alle quali spesso viene affidato in toto il peso del raggiungimento o meno di un obbiettivo. Crescere significa smettere di fuggire dalle proprie paure e frustrazioni, quelle che a scuola ci ricordavano l’impellenza di andare a fare pipì quando l’insegnante doveva scegliere chi interrogare, quelle che ci fanno rivolgere lo sguardo a terra o altrove quando il trainer chiede dei volontari per provare gli esercizi che non sappiamo fare, quelle che ci fanno evitare di immedesimarci nella sgradevolezza degli esercizi noiosi, quelli che risolvono le magagne che ci portiamo appresso, la cui causa scarichiamo ed imputiamo al terapeuta che non riesce a farcele passare prima ancora che si presentino a noi.

Crescere è accettare le sfide dello sport e della vita con la consapevolezza che queste non sono altro che delle occasioni per scendere sempre più nei meandri del proprio essere. Si cresce nel momento in cui si smette di pensare che il successo sia battere l’avversario, perché tanto prima o poi ci sarà sempre qualcuno più forte di noi, e anche chi vince le olimpiadi, prima o poi dovrà scendere dal trono e lasciare il posto a qualcun altro, ed è proprio in quel momento che inizierà a fare i conti con l’avversario più temibile che potrà mai incontrare nella vita, ovvero sé stesso.

Crescere nello sport è mettersi in discussione, crescere è amarsi, crescere è accettarsi, crescere è vedere ciò che non si vorrebbe vedere, crescere è dedicarsi al fare piuttosto che al pensare che forse potrei fare. Crescere nello sport è accettare che tante volte il fallimento è un’opportunità e non una sconfitta. Crescere nello sport è assumersi le proprie responsabilità, quelle che ci danno fastidio, che ci fanno sentire a disagio, che non vorremmo fossero nostre e che talvolta tentiamo in ogni modo di affidare a terzi, quelle che ci sbattono violentemente al di fuori della zona comfort. Crescere non è solo cimentarsi in nuovi esercizi, in estenuanti e pericolose prove fisiche di forza o resistenza, ma è accettare queste sfide con la piena consapevolezza che come in ogni cosa, si può vincere ma si può anche fallire, e spesso è proprio il fallimento, quello che fa male, che stimolerà la nostra crescita, non quella dei muscoli, ma quella interiore. Il più forte non è sempre colui che vince, ma spesso è colui che dal quel percorso ne ha tratto insegnamento per una sua crescita interiore.

 

Trainer Stefano Ceccon